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Zona 2 e frequenza cardiaca: come monitorarla al meglio

Zona 2 e frequenza cardiaca: come monitorarla al meglio

Quando parlo con i runner dell’importanza della zona 2, la prima obiezione che sento è sempre la stessa: “Ma come faccio a sapere se ci sono davvero dentro?”. È la domanda più naturale, perché la zona 2 è un range preciso, ma nella pratica quotidiana diventa un concetto sfuggente. Non basta correre piano, non basta fidarsi delle sensazioni: bisogna monitorare la frequenza cardiaca con metodo. In questo articolo voglio raccontarti un’esperienza concreta con un atleta che seguo, perché credo renda meglio di mille spiegazioni astratte. Attraverso la sua storia, vedrai quali errori possono trarti fuori strada e quali strategie ti permettono invece di tenere sotto controllo la zona 2 in modo affidabile.


L’inizio: correre troppo forte senza accorgersene

L’atleta in questione era un uomo sulla cinquantina, con buona esperienza di corsa ma abituato ad allenarsi “a sensazione”. Non aveva mai dato troppo peso alla frequenza cardiaca: preferiva ragionare in termini di ritmo al chilometro, convinto che quello fosse il vero parametro di allenamento. Quando gli ho proposto di lavorare seriamente in zona 2, la sua prima reazione è stata di sorpresa: “Ma io corro già piano, non posso andare più lento di così”.

Abbiamo fatto una prova sul campo: gli ho chiesto di correre a passo facile con il cardiofrequenzimetro attivo. Dopo appena cinque minuti era già oltre i 145 bpm, cioè fuori dal suo range di zona 2 che andava dai 120 ai 138 battiti. Per lui era scioccante: si sentiva rilassato, convinto di essere in piena corsa lenta, ma in realtà stava già consumando glicogeno e accumulando lattato. Questa è la dimostrazione più chiara di quanto sia ingannevole la percezione senza un controllo oggettivo.


Il primo errore: affidarsi solo al sensore da polso

Come molti runner, anche lui usava soltanto lo smartwatch. Il problema è che i sensori ottici da polso hanno una latenza e un margine di errore che, in lavori di precisione come la zona 2, diventano enormi. In particolare nei primi minuti, quando la circolazione periferica non è ancora stabilizzata, i battiti rilevati dal polso possono sballare di 10–15 bpm. Non è un dettaglio: se la tua zona 2 copre 15–20 battiti, un errore di quella portata significa completamente sbagliare intensità.

Per questo gli ho fatto indossare la fascia cardio toracica. All’inizio era restio, lo trovava scomoda, ma dopo la prima settimana non l’ha più tolta. I dati erano molto più coerenti e soprattutto immediati nelle variazioni: se aumentava il passo di poco, la fascia segnava subito la salita dei battiti, cosa che al polso arrivava con un ritardo di 30–40 secondi. E in zona 2 quei secondi fanno la differenza, perché rischi di accumulare lattato senza accorgertene.


L’importanza del riscaldamento

Un altro aspetto che abbiamo dovuto correggere era il riscaldamento. Questo atleta partiva sempre troppo forte, convinto che i primi chilometri servissero solo a “ingranare”. Il risultato era che i battiti schizzavano subito in alto, e ci volevano dieci minuti per stabilizzarli. Quando si vuole restare in zona 2, il riscaldamento deve essere graduale, quasi noioso: camminata, corsetta, e solo dopo il corpo entra davvero nella fascia giusta. Abbiamo stabilito una regola semplice: i primi dieci minuti sempre sotto i 120 bpm, anche se significava alternare corsa e cammino. All’inizio sembrava assurdo, ma dopo poche settimane è diventato naturale, e i battiti non facevano più impennate incontrollate.


Capire la variabilità cardiaca

Un altro punto cruciale che abbiamo introdotto è stato il monitoraggio della variabilità cardiaca (HRV). Non è direttamente collegata alla zona 2, ma è un indicatore fondamentale per capire se il corpo è pronto ad allenarsi. Alcuni giorni i suoi battiti erano inspiegabilmente più alti, anche a parità di ritmo. Senza un contesto, avrebbe pensato di essere “fuori forma”. In realtà, erano segnali di scarso recupero o stress.

In quelle giornate abbiamo imparato a ridurre l’intensità, restando nella parte bassa della zona 2 o addirittura in zona 1. Questo gli ha evitato di accumulare fatica inutile e ha reso più efficiente il programma. Il messaggio è chiaro: non basta conoscere il range numerico della zona 2, bisogna saperlo interpretare in base al contesto quotidiano.


Il talk test: non sempre basta

Abbiamo usato anche il famoso “test del parlare”, che resta un metodo utile ma impreciso. Questo atleta, per esempio, riusciva a parlare anche a 150 bpm, perché aveva una buona base aerobica e una ventilazione efficiente. Se ci fossimo basati solo su quel criterio, sarebbe stato sistematicamente fuori zona. È per questo che dico sempre: il talk test è un buon riferimento, ma non sostituisce il monitoraggio con strumenti. Può funzionare nei principianti, ma un runner esperto ha bisogno di dati oggettivi.


Il passo dell’atleta cambia nel tempo

Un aspetto interessante emerso dal lavoro è stato vedere come, nel giro di otto settimane, lo stesso passo corrispondeva a una frequenza cardiaca diversa. All’inizio correre a 6:30/km lo portava a 140 bpm, quindi fuori zona 2. Dopo due mesi, lo stesso passo era a 133 bpm, cioè dentro il range. Questo dimostra il vero effetto dell’allenamento: non solo si impara a gestire meglio lo sforzo, ma il corpo diventa più economico, consumando meno energia per la stessa velocità. Senza un monitoraggio attento, questi progressi sarebbero invisibili. È il dato che ti mostra se stai davvero costruendo resistenza.


Evitare la frustrazione psicologica

Devo dire che una delle sfide maggiori è stata psicologica. All’inizio l’atleta mi diceva: “Mi sembra di perdere tempo, vado troppo piano”. È normale sentirsi frustrati quando ti obblighi a correre a ritmi che percepisci come “troppo lenti”. Ma qui entra in gioco la fiducia nel metodo. Ho insistito: “Se resti in zona 2, tra qualche mese andrai più veloce con la stessa fatica”. Dopo sei settimane, quando ha corso 12 km a un passo più rapido ma con battiti stabili in zona 2, ha capito che la pazienza stava pagando. Questo è forse il punto più difficile da far accettare ai runner: non bisogna giudicare subito, ma fidarsi del processo.


La lezione finale: personalizzazione e disciplina

Questa esperienza mi ha confermato ancora una volta che la zona 2 non è una formula magica valida per tutti, ma un metodo che richiede disciplina e strumenti adeguati. Senza una fascia cardio precisa, senza un riscaldamento corretto e senza la capacità di leggere i dati nel contesto, è facile sbagliare. L’atleta che ho seguito ora ha imparato ad allenarsi quasi in autonomia: sa riconoscere quando i battiti non mentono e quando invece è il corpo a mandare segnali particolari. Ha capito che correre piano non significa essere deboli, ma costruire fondamenta solide.


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