Depressione dopo la corsa: il corpo c’è, non la testa
- Run Ritual
- 13 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Lo conosco da anni, Giuseppe. Classe ’82, di Gubbio, uno che ha macinato chilometri su chilometri con la regolarità di un metronomo. Lo definiresti un maratoneta “solido”: 3h26’ il personale, sempre presente nelle grandi classiche, sempre in forma. Uno di quelli che quando vedi partire, pensi che andrà tutto liscio.E invece, a un certo punto, non è più andata.
Quando mi ha chiamato la prima volta, era appena tornato dalla sua diciannovesima maratona. Aveva chiuso in 3h33’, più lento del solito, ma niente di preoccupante in sé.Solo che stavolta non era il tempo a pesargli. Erano i giorni dopo.“Gianni, non è stanchezza. È come se qualcosa si fosse spento”.

Il crollo non è fisico. È mentale, profondo.
Mi racconta che già in volo di ritorno sentiva una strana malinconia. Nei giorni seguenti, svuotamento totale. Nessuna voglia di uscire, sonno disturbato, fame strana – “non fame vera, fame nervosa” – e soprattutto una sensazione costante di distacco da tutto.“Non è tristezza”, mi dice. “È come se la corsa mi avesse preso qualcosa che non riesco a riprendermi”.
Lo ascolto. So benissimo cosa descrive. Non è raro. L’ho visto succedere ad altri atleti, anche ben più giovani.Non è un semplice “giorno no”. È qualcosa che inizia nel corpo, ma si manifesta nella mente.
Dopo la maratona: il vuoto chimico e ormonale
Gli spiego subito la prima cosa che va capita: la depressione post corsa non è solo una questione psicologica. È biochimica.Durante una maratona, il corpo produce un’esplosione di endorfine, adrenalina, noradrenalina, cortisolo. Tutto serve a spingerti oltre il limite.Il problema è che dopo, a gara finita, il sistema nervoso crolla. Serve tempo per riassestare quei livelli.Quel che molti runner non sanno – o fingono di ignorare – è che il post gara è un trauma sistemico. E se non è gestito, può generare veri e propri sintomi depressivi.
Con Giuseppe, comincio a scavare: cosa ha mangiato dopo la gara? Ha reintegrato? Come ha dormito?Scopriamo che nei due giorni successivi non ha mangiato quasi nulla di solido, ha dormito a tratti, non ha preso sali né integrato nulla.“Non avevo fame. Solo una gran voglia di starmene chiuso in casa”.Il classico effetto rebound: quando il corpo spegne tutto per risparmiare.
Il rischio del maratoneta esperto: abituarsi al carico e ignorare i segnali
Giuseppe non è un neofita. È proprio questo che lo ha fregato. Pensava di sapere cosa aspettarsi.“Io dopo la maratona torno a correre dopo tre giorni, da sempre”.Questa volta però era diverso. Perché il suo corpo non aveva più margine.
Parliamo di accumulo: troppe gare ravvicinate, troppi cicli con pochi scarichi.Gli spiego che il problema non è stata solo l’ultima maratona, ma l’intero biennio precedente. Gare, lunghi, soglia. Nessuna pausa vera.Quello che stava vivendo non era solo calo, era un burnout da corsa. Uno stato in cui la testa dice “continua”, ma il sistema nervoso dice “basta”.
La strategia per ripartire: togliere, non aggiungere
Con Giuseppe non abbiamo aumentato nulla.Abbiamo tolto.Stop totale per una settimana. Nessuna corsa. Solo passeggiate al sole, idratazione curata, reintegrazione di sali, attenzione a magnesio e vitamina D.Alimentazione semplificata, niente regimi da atleta, solo cibo vero e regolare.Poi una settimana con due uscite da 30 minuti, senza orologio.“Se ti viene da camminare, cammina. Se vuoi correre, corri piano”.
Nel frattempo, l’ho guidato anche su un piano più mentale: journaling giornaliero (“Scrivi ogni sera come ti senti, senza giudicare”) e un semplice esercizio di visualizzazione: immaginare la corsa non come obbligo, ma come momento di ascolto.Lui era abituato a fare tutto a ritmo, con obiettivo. Gli ho chiesto di togliere tutto.
Il cambiamento: quando il corpo riprende, la mente lo segue
Due settimane dopo, Giuseppe torna a correre con costanza. Non lunghi, non soglia. Solo corsa leggera, 40 minuti, tre volte a settimana.“Non ho più quella fame nervosa. Dormo bene. E riesco a sorridere quando mi allaccio le scarpe”.Non è una frase qualsiasi. È il segnale che qualcosa si è sbloccato.La corsa sta tornando a essere piacere, non dovere.Quando questo succede, so che il recupero è in corso.
La lenta ricostruzione: non è il ritmo che conta, ma la direzione
Nella terza settimana, Giuseppe non era ancora tornato “il solito Giuseppe”. Ma qualcosa era cambiato.Mi scrisse un messaggio dopo un’uscita di 35 minuti:“Oggi non ho guardato il passo nemmeno una volta. Ma quando sono rientrato, sentivo di aver fatto qualcosa di buono”.
È in quel momento che ho capito che stava entrando nella fase più delicata: la ricostruzione del legame con la corsa.Non come prestazione. Non come tabella. Ma come gesto quotidiano, radicato, personale.
Gli ho dato un compito semplice: per le 2 settimane successive, scrivere ogni giorno una frase su cosa gli aveva lasciato la corsa. Una sola. Niente numeri, niente dati.E ogni volta che leggevo le sue frasi, capivo che stavamo andando nella direzione giusta.
“Oggi la corsa mi ha dato respiro.Mi ha fatto vedere la nebbia con occhi diversi.Mi ha tolto le spalle contratte.”
Queste frasi, più di qualunque cronometro, sono i veri indicatori di adattamento positivo.
Allenare la mente: non solo recupero, ma prevenzione
Come coach, vedo ogni giorno runner che si allenano per chilometri, soglia, tempo. Ma pochissimi che si allenano per equilibrio mentale.Eppure, la mente è parte del motore. Non puoi ignorarla.
Con Giuseppe, abbiamo iniziato anche un percorso minimo di allenamento mentale. Non parlo di psicologia clinica, ma di igiene mentale del runner.Significa:
Programmare momenti di stop, anche se va tutto bene
Avere un diario di bordo non solo numerico, ma emozionale
Usare la corsa lenta come strumento di decompressione
Allenarsi a non fare, quando il corpo lo chiede
Ho visto troppi atleti perdere lucidità solo perché non sapevano stare fermi.Insegnare a fermarsi con criterio è una delle sfide più importanti per un allenatore oggi.La cultura del “più è meglio” ha rovinato più runner del sovrappeso.
Quando la corsa torna a essere casa
Tre mesi dopo l’episodio, Giuseppe ha corso un lungo di 21 km, da solo, in collina.Non era previsto in tabella. Non me lo aveva detto. Mi ha solo mandato un messaggio dopo:
“Oggi ho corso piano. Ma ho goduto ogni passo. Mi sentivo di nuovo dentro. Mi sentivo io.”
Ecco il punto. Perché tutti noi, in fondo, cerchiamo nella corsa un luogo dove tornare.Quando la corsa diventa solo prestazione, rischia di svuotarci.Ma quando impariamo a correre per restare in contatto, allora anche un momento buio diventa occasione di trasformazione.
Conclusione: allenare anche ciò che non si vede
Questa storia non riguarda solo Giuseppe.Riguarda ognuno di noi che corre con passione, con costanza, con disciplina.Correre è meraviglioso. Ma non è un anestetico. E nemmeno una fuga.Se non sai ascoltarti, ti trascina oltre. Se invece impari a leggere i segnali, ti restituisce equilibrio, lucidità, e forza. Come coach RunRitual, non mi interessa solo il cronometro. Mi interessa quanto a lungo puoi restare in salute, integro, motivato.E per farlo, serve allenare anche ciò che non si vede: la mente, la motivazione, la capacità di fermarsi.
Giuseppe ha corso quasi venti maratone. Ma quella che ha corso dentro di sé, quando ha attraversato il suo down, è stata la più difficile.E forse anche la più importante.Perché è quella che gli ha insegnato che la corsa è uno strumento. Non un padrone.
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